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di Martina Colorio

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Spazio urbano o spazio naturale

Spazio urbano o spazio naturale

Anche voi avete il desiderio di trasferirvi in campagna?

In questo 2020 sempre più persone stanno valutando di andare a vivere lontano dalle città. Un po’ per una crescente sensibilità ai temi del benessere dell’ambiente e del corpo, un po’ per delle nuove necessità emerse in quest’anno di pandemia. L’epidemia di COVID-19 che ha colpito la maggior parte della popolazione mondiale, ha messo forse per la prima volta i residenti di metropoli e megalopoli davanti ad un grande quesito: si può vivere in casa?

Sembrerebbe una domanda retorica, eppure, come accennato in questo articolo, molti non hanno consapevolezza di quanto la propria casa, o l’abitazione in cui risiedono per periodi più lunghi, sia adatta o meno al proprio benessere. La maggioranza della popolazione lavoratrice, si trova per gran parte della giornata e quindi della settimana, fuori di casa e ha comprato, affittato e configurato la stessa secondo i propri bisogni “ordinari”.

Ma è corretto parlare di stato straordinario delle cose?

I media continuano a parlare di business as usual, o comunque di ritornare quanto prima allo “stato precedente delle cose”. Quindi la routine applicata per anni o per decenni, viene tutt’ora vista come una cosa da recuperare necessariamente. Ma questa routine, per la fascia più urbanizzata della popolazione, è una routine extra-domestica.

Non affronto un’analisi più approfondita di quelle che sono le differenze tra le fasce di popolazione secondo le possibilità economiche e lavorative, perché ovviamente la situazione colpisce in modo differente e ineguale, a seconda dello status sociale. L’analisi si baserà su principi di massima, legati alla percezione del territorio e alle funzioni domestiche.

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Più le case diventano tecnologiche, più diventano disfunzionali.

La società del commercio e dell’industria ha generato nella popolazione un desiderio di surplus che si è trasformato in necessità di possedere. La tecnologia è alla base della produzione e il suo aggiornamento costante genera nella popolazione incapacità di risolvere ed eseguire compiti basilari e manuali, devolvendo la loro esecuzione alla tecnologia. Le case progettate con la domotica, ad esempio, sono perfettamente funzionali alla vita di persone che hanno poco tempo, che vogliono controllare casa quando sono lontani, ma hanno un rovescio della medaglia: se la rete o la tecnologia ci abbandona, la casa diventa meno gestibile. E l’illuminazione è il minore dei problemi.

La casa ipertecnologica è disfunzionale per l’essere umano, non solo per una questione elettromagnetica, ma perché una persona per mantenersi attiva fisicamente e mentalmente ha la necessità di manipolare, muoversi e cercare in modo autonomo delle soluzioni. Se da un lato abbiamo un aiuto nella gestione dell’abitazione, l’uso della domotica quando si è nel pieno possesso delle proprie capacità fisiche, col tempo crea una dipendenza basata su un rischio: non saper arrangiarsi. Per noi in Italia la situazione è appena agli esordi, ma basti vedere come negli Stati Uniti o in altre aree del mondo ci sono persone che faticano ad eseguire i più semplici compiti quotidiani (cucinare, pulire, guidare l’auto persino…) senza l’aiuto della tecnologia, da cui sono diventati dipendenti.

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I costi della tecnologia si aggiungono ai costi di tipo spaziale, quindi le case si riducono di metratura.

Le abitazioni nelle metropoli, o comunque nei grossi centri urbani, hanno un’altra caratteristica non compatibile con la permanenza prolungata in esse: lo spazio. Per vivere nei grossi centri, e per far vivere sempre più persone in essi, la metratura domestica si è ridotta progressivamente. In Italia, alle grandi case anni ’60, in cui anche gli appartamenti abitualmente superavano gli 80-90 mq, si è ridotto progressivamente lo spazio fino a medie di 50-60 mq, senza portare i casi limite al di sotto dei 30 mq. Queste piccole abitazioni sono molto funzionali per una vita extra domestica, in cui il lavoro e relazioni sociali hanno la prevalenza, ma non se viene richiesto di lavorare e studiare da casa. Soprattutto se si tratta di una famiglia con figli.

I lockdown prolungati hanno messo in luce la difficoltà di convivenza forzata, oltre che il disagio di non poter avere spazi aperti (giardini e terrazze) in cui poter permanere per tempi prolungati. Tutte le forzature ai divieti viste durante la quarantena primaverile, sono state sintomo della difficoltà di rimanere a casa propria. Tutta la popolazione che ha cominciato a far attività fisica pur di uscire, oltre ad averci guadagnato sicuramente in salute, ha dimostrato dal punto di vista sociale che non siamo pronti a stare a casa nostra. E la prima causa è il non avere gli spazi per stare a nostro agio in essa.

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La campagna sta diventando un ideale bucolico di fuga dalla tecnologia e dal chaos cittadino.

Chi ha avuto la fortuna di passare il lockdown lontano dalle città, infatti, a parte i disagi negli spostamenti ha avuto una libertà di movimento maggiore. Per tale ragione sempre più persone che non avrebbero mai pensato di abbandonare le comodità cittadine, cominciano a valutare di spostarsi ben oltre le aree suburbane. L’immagine che si sta formando è quella romantica di una campagna dalle connotazioni arcadiche, anche ampliata dalla risonanza mediatica di nuove ondate di influencer votati alla country life.

Questo ci fa ragionare su come ciò che viene percepito come necessità, unito a degli effettivi benefici come:

  • Migliore qualità dell’aria
  • Possibilità di movimento in spazi aperti
  • Metrature più ampie delle abitazioni a parità di spesa
  • Minor inquinamento luminoso ed elettromagnetico

creino una forma pensiero collettiva in cui “in campagna si sta bene, perché si può stare in casa stando fuori casa“. I disagi dovuti al mantenimento di appezzamenti e grossi edifici, e alle distanze, passano quindi in secondo piano. Infatti nella valutazione dei pro e i contro, la probabilità di futuri lockdown è entrata nell’immaginario collettivo e quindi già si comincia a pensare a una nuova gestione del tempo che permetterebbe di far conciliare lavoro e vita domestica.

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Lo smart working è stato il campanello di allarme di tutti i problemi di territorio domestico.

Lavorare da casa è stata una scoperta per molti impiegati, che però hanno dovuto gestire la situazione con i mezzi a disposizione, spesso condividendo spazi troppo piccoli per vivere e lavorare in più persone. Come per qualsiasi altra specie, la nostra è soggetta a problemi di gestione del territorio. Infatti, anche se non lo facciamo in modo cosciente, percepire il nostro spazio domestico come troppo piccolo o invaso da terzi, genera stressor molto forti, che sul lungo periodo creano veri e propri attacchi di aggressività. Questi però non vengono percepiti come causati da tale problema, e molto spesso sono affrontati tardivamente.

Uno spazio non urbano mitiga la sensazione di territorio sottratto, sia per la maggior disponibilità di spazio, sia perché il verde e i colori terra hanno capacità di abbassare il livello di stress e far sentire le persone a proprio agio. Al contrario, in un ambiente a prevalenza grigio o riflettente, come nelle grandi città, viene aumentato dal setting non naturale.

L'ambiente naturale è sempre preferibile a quello artificiale.

Non è un modo di dire, né una considerazione. Avere la possibilità di scegliere tra la vita metropolitana e quella in campagna, dovrebbe portarci sempre verso la seconda. Le istituzioni preferiscono la centralizzazione, per risparmiare sui servizi, ma l’essere umano ha bisogno di vivere in un contesto sano e florido. Nell’impossibilità di traslocare, anche prendere consapevolezza di come si manifesti a livello psichico un problema di territorio, o un problema ambientale, diventa fondamentale. In una visione di cambiamento delle abitudini e della routine sociale in generale, ripensare gli spazi antropizzati, organizzandoli come reti e non come agglomerati, potrebbe essere un sistema per rieducare allo spazio naturale, e quindi spingere anche le istituzioni a sostenere una disurbanizzazione che agevolerebbe anche in caso di future pandemie.

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